Mediterraneo

12 Febbraio 2011

Oggi è uscito sul País un articolo di Timothy Garton Ash, con un’analisi delle proteste in Egitto dopo le dimissioni di Mubarak. Dentro l’articolo ci son due cose che è dal primo momento, da quando quello studente tunisino si è dato fuoco, dal primo momento mi frullano nella testa. Una è lo straniamento che hanno provocato le rivolte nelle menti occidentali, causato dal pensiero comune che la cultura araba sia immobile, fatalista e non pronta per il cambiamento verso la libertà. E di questo dice Garton Ash:

Una vittima di questa rivoluzione, della cui morte dovremmo rallegrarci, è la fallacia del determinismo culturale, e in concreto la nozione che gli arabi e i mussulmani non sono pronti per le libertà, la dignità e i dititti umani. La loro “cultura”, ci assicuravano Samuel Huntington e altri, li programmava per un’altra cosa. Che vadano a dirlo ora alla gente che balla in piazza Tahrir. Questo non significa che i modelli religioso-politici dell’islam sia radicale che conservatore non faranno sì che la transizione verso una democrazia liberale consolidata sia più difficile di quanto lo fu, per esempio, nella Repubblica Ceca. Certo. È possibile che le cose, alla fine, finiscano terribilmente male. Però l’idea accondiscendente che “là non potrebbe mai succedere una cosa del genere” è stata smontata nelle strade di Tunisi e del Cairo.

L’altra cosa è l’arbitrarietà dei paragoni storici: come se Egitto e Tunisia non avessero dignità di una rivoluzione propria, di un cambiamento solo egiziano o solo tunisino. Dice Garton Ash:

Nel New York Times, Roger Cohen, che ha scritto splendide cronache dalla Tunisia e dall’Egitto, segue la prima legge del giornalismo (“prima semplificare, poi esagerare”) quando dice che “la questione fondamentale” in Egitto è: “siamo di fronte alla Teheran del 1979 o alla Berlino del 1989?”. Una risposta possibile è: quello che stiamo vedendo al Cairo nel 2011 è il Cairo del 2011. Non lo dico nel senso ovvio che ogni evento è unico ma in un senso più profondo. Perché quello che caratterizza una vera rivoluzione è la apparizione di qualcosa di veramente nuovo da una parte, e dall’altra il ritorno di un principio umano universale che era stato represso.

È forse vero che le reazioni nella cultura araba sono lente, e la tendenza è quella di mantenere un certo status quo; è forse vero che un certo fatalismo si percepisce, nella gente. Però quando la misura è colma la gente si unisce e scende in piazza, e dell’immobilismo non se ne vede più traccia.

Non so se questo si può dire di noi, progressisti, innovatori, seduti in riva al fiume aspettando che passi il cadavere del nostro nemico che qualcun altro, prima o poi, ucciderà.

Scritto da Reloj il 12 Febbraio 2011
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