Nomina nuda tenemus
Quando Dio creò Adamo (non quello di Perduto Amor, dico proprio Adamo quello originale), gli diede la facoltà di dare nomi alle cose che gli stavano attorno. Dare il nome qualcosa significa prendere possesso di essa e su di essa avere autorità. Lo fanno i genitori coi figli, lo fanno i bambini con i loro pupazzetti, e le showgirl con le loro grazie. È prassi comune.
Ma la faccenda del nome, è risaputo, non si ferma qui. Nella retorica e nella dialettica il nome che si dà alle cose cambia la visione che delle cose si ha: così un religioso può essere un prete e uno spazzino un operatore ecologico; una crisi può essere una flessione della crescita economica; un adultero può essere quello stronzo. Dipende sempre dal punto di vista. La questione è stata a lungo dibattuta in importantissimi trattati di filosofia del linguaggio, tra i quali citerei qui qualcuno se non avessi paura di dare perle ai porci e se effettivamente ne conoscessi qualcuno. Insomma, questa storia dei nomi ha sempre fatto discutere, a qualsiasi livello, alto (Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per il nome, che non è parte di te, prendi me stessa) o basso (no, Gessica, ti dico che è molto meglio che nostro figlio si chiami Prins. Maicol porta sfiga).
Allora.
Barak Obama, il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, ha scelto come lemma della campagna per le elezioni primarie “YES, WE CAN”. E le ha vinte.
La Cuatro, il canale privato spagnolo che ha trasmesso tutte le partite dei Campionati Europei di pallone 2008, ha scelto per appoggiare la Nazionale spagnola il lemma “PODEMOS”. E la Nazionale spagnola ha vinto.
Walter Veltroni, il candidato alle elezioni politiche italiane del 2008, ha scelto come lemma “SI PUÒ FARE”. E ha perso.
Ho la sensazione che chi ha inventato questa storia dell’importanza dei nomi, ovverosia Dio con la collaborazione attiva di filosofi del linguaggio, semiotici e compagnia cantante, sono almeno cinque o sei millenni che si burlano sfacciatamente di noi.
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